Corte Costituzionale 2025 - La sentenza della Corte costituzionale n. 182/2025 rappresenta un importante pronunciamento in materia di legittimità costituzionale delle norme relative al procedimento di prevenzione patrimoniale, in particolare dell’articolo 37, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale (c.p.p.), in relazione all’articolo 36, comma 1, lettera g), dello stesso codice.
**Oggetto della questione di legittimità costituzionale**
La Corte di cassazione aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale, contestando la norma censurata sotto vari profili, tra cui la presunta violazione degli articoli 24, 111 e 117 della Costituzione, nonché degli articoli 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE (CDFUE).
Il motivo principale di contestazione riguardava l’assenza di una norma che consentisse alle parti di ricusare il giudice che, nell’ambito del procedimento di prevenzione, emetteva un provvedimento di restituzione degli atti all’autorità proponente. Secondo la Corte di cassazione, questa lacuna poteva compromettere il principio di imparzialità del giudice, poiché le valutazioni espresse nel provvedimento di restituzione potrebbero influenzare la percezione di neutralità del giudice stesso, creando un possibile conflitto di interessi.
**Analisi e motivazioni della Corte costituzionale**
La Corte costituzionale ha invece ritenuto che la questione non sia fondata, adottando un approccio che si fonda su tre principali considerazioni:
1. **Carattere del procedimento di prevenzione**: La Corte ha precisato che, a differenza del procedimento penale, il procedimento di prevenzione patrimoniale non si articola in distinte fasi processuali, bensì mantiene una struttura "monofasica". Ciò significa che, anche nel caso di restituzione degli atti all’autorità proponente, non si verifica una regressione di fase, ma si tratta di una sottofase all’interno di un procedimento unitario. Di conseguenza, la possibilità di ricusare il giudice sulla base di tale attività non si configura come un rischio di compromissione dell’imparzialità, poiché il procedimento non si interrompe né si frammenta, ma si mantiene unitarietà processuale.
2. **Imparzialità e diritto al giusto processo**: La Corte richiama l’articolo 111, comma 2, della Costituzione, che garantisce il diritto a un "giusto processo". In questo quadro, il procedimento di prevenzione deve rispettare i principi di imparzialità del giudice, principi che sono tutelati anche dagli strumenti internazionali e comunitari richiamati (articoli 6 CEDU e 47 CDFUE). La Corte sottolinea che, sebbene il procedimento abbia caratteristiche peculiari, questi principi costituzionali continuano ad applicarsi, assicurando che l’attività del giudice sia condotta in modo imparziale e privo di pregiudizi.
3. **Qualificazione della restituzione degli atti**: La Corte evidenzia che la restituzione degli atti all’autorità proponente non costituisce un’attività pregiudicante, poiché in realtà rappresenta un atto di valutazione sulla sussistenza dei presupposti della misura cautelare, e non un’attività che anticipa decisioni di limitazione della libertà o di sequestro. La restituzione, infatti, si limita a valutare la completezza e la sufficienza degli atti, e non comporta una decisione di per sé pregiudizievole o che possa compromettere l’imparzialità del giudice. Pertanto, non sussiste il rischio che tale attività possa influire sulla neutralità del giudice, né che la mancata possibilità di ricusazione in questa fase possa ledere il diritto al giusto processo.
**Conclusioni**
In definitiva, la Corte costituzionale ha ritenuto che la normativa in questione sia compatibile con i principi costituzionali e internazionali, poiché il procedimento di prevenzione patrimoniale, sebbene peculiare, garantisce comunque il rispetto dei diritti di difesa e dell’imparzialità del giudice. La mancata previsione di un diritto di ricusazione specifico per la fase di restituzione degli atti non si configura come violazione del diritto al giudice imparziale o del principio del giusto processo, né come attività pregiudicante che possa compromettere la neutralità del giudice.
**In sintesi**
- La struttura monofasica del procedimento di prevenzione evita la frammentazione e i rischi di compromissione dell’imparzialità.
- La restituzione degli atti non costituisce attività pregiudicante, ma una valutazione sulla sussistenza dei presupposti della misura.
- La normativa è compatibile con i principi costituzionali e internazionali che tutelano il diritto al processo equo e l’imparzialità del giudice.
Questo pronunciamento chiarisce e rafforza la compatibilità del procedimento di prevenzione con i principi fondamentali dello Stato di diritto e dei diritti dell’uomo, confermando la legittimità delle norme vigenti in materia.
SENTENZA N. 182
ANNO 2025
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da:
Presidente: Giovanni AMOROSO;
Giudici: Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Massimo LUCIANI, Maria Alessandra SANDULLI, Roberto Nicola CASSINELLI, Francesco Saverio MARINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, in relazione all’art. 36, comma 1, lettera g), del medesimo codice, promosso dalla Corte di cassazione, sesta sezione penale, nel procedimento penale a carico di M. F. con ordinanza del 4 dicembre 2024, iscritta al n. 243 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2025.
Visti l’atto di costituzione di M. F. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito all’udienza pubblica del 23 settembre 2025 il Giudice relatore Massimo Luciani;
uditi l’avvocato Marco Talini per M. F. e l’avvocato dello Stato Salvatore Faraci per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 23 settembre 2025.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 4 dicembre 2024, iscritta al n. 243 del registro ordinanze 2024, la Corte di cassazione, sesta sezione penale, chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto avverso l’ordinanza di rigetto della dichiarazione di ricusazione formulata da M. F. nei confronti dei magistrati del Tribunale ordinario di Firenze, ha sollevato d’ufficio, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, in relazione all’art. 36, comma 1, lettera g), del medesimo codice, nella parte in cui non prevede che le parti possano ricusare il giudice che, chiamato a decidere sull’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, abbia disposto nel medesimo procedimento, ai sensi dell’art. 20, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), la restituzione degli atti all’autorità proponente.
1.1.– Quanto ai fatti di causa, il giudice a quo riferisce che il Tribunale di Firenze, decidendo sulla richiesta di sequestro di beni del proposto depositata nell’ambito di un procedimento di prevenzione, ha disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero ai sensi del ricordato art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, ritenendo che le indagini non fossero complete e indicando gli ulteriori accertamenti patrimoniali necessari. Riferisce altresì che, a seguito del deposito da parte del pubblico ministero dell’integrazione istruttoria sollecitata, il predetto Tribunale: i) ha disposto, in via cautelare, il sequestro di prevenzione dei beni nella disponibilità, diretta o indiretta, del proposto; ii) ha fissato l’udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali; iii) ha rigettato due dichiarazioni di astensione che erano state formulate. Infine, riferisce che, successivamente, la Corte d’appello di Firenze, con il provvedimento oggetto del ricorso per cassazione introduttivo del giudizio a quo, ha rigettato l’istanza di ricusazione dei componenti del collegio del Tribunale presentata dal proposto.
1.2.– Il rimettente motiva anzitutto in ordine alla rilevanza della questione, osservando che la norma censurata deve essere applicata nel giudizio principale e che l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della stessa consentirebbe di accogliere il ricorso introduttivo del giudizio principale.
Né sarebbe percorribile, sostiene il rimettente, un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 37 cod. proc. pen., essendo i motivi di ricusazione del giudice tassativi e non estensibili in via analogica.
1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene che la norma di cui all’art. 37, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. contrasti con gli artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 CEDU e 47 CDFUE.
Preliminarmente rileva, al riguardo, che la restituzione degli atti, prevista dall’art. 20, comma 2, cod. antimafia, può implicare, come sarebbe accaduto nella fattispecie in discussione in tale giudizio, penetranti valutazioni di merito in relazione alla pericolosità del proposto e alla sproporzione delle risultanze reddituali e patrimoniali, ampiamente anticipatorie degli apprezzamenti che avrebbero dovuto essere espressi nella decisione sulla proposta di confisca (e preliminare sequestro) di prevenzione, che determinerebbero l’incompatibilità dei giudici a decidere in ordine al provvedimento ablatorio e ne legittimerebbero la ricusazione.
Afferma che, mentre la disciplina vigente non prevede espressamente cause di ricusazione nel procedimento di prevenzione, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto ivi applicabili le norme in tema di incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice dettate dagli artt. 34, comma 1, 35, 36, comma 1, lettere a), b), c), d), f) e h), e 37, comma 2, cod. proc. pen. (viene richiamata Corte di cassazione, prima sezione penale, sentenza 27 maggio-12 ottobre 2016, n. 43081), cioè quelle concernenti tutte le ipotesi di «appannamento» dell’apparenza di imparzialità dovuto a ragioni extragiudiziarie o, comunque, esterne al procedimento.
Il contrasto registratosi nella giurisprudenza di legittimità in relazione alla possibilità di ricusare il giudice chiamato ad applicare le misure di prevenzione per effetto delle valutazioni in precedenza espresse nei confronti di un medesimo soggetto in sede di cognizione penale o in un altro procedimento di prevenzione è stato invece risolto dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione, affermando il principio che è applicabile al procedimento di prevenzione il motivo di ricusazione contemplato dall’art. 37, comma 1, cod. proc. pen. – come risultante a seguito dell’intervento additivo compiuto da questa Corte con la sentenza n. 283 del 2000 – nel caso in cui il giudice, in precedenza, abbia espresso valutazioni di merito sullo stesso fatto nei confronti dello stesso soggetto in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 24 febbraio-6 luglio 2022, n. 25951). In tal senso si è evidenziato da parte del rimettente come la sentenza n. 238 (recte: 283) del 2000 di questa Corte, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti il giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto», ha una valenza "bidirezionale”, nel senso che in ordine al procedimento di prevenzione considera pregiudicanti non soltanto le valutazioni espresse nel processo di prevenzione sulla successiva decisione di merito, ma anche le valutazioni espresse nel giudizio di merito o in altro procedimento di prevenzione.
Il principio affermato dalla citata sentenza delle Sezioni unite penali n. 25951 del 2022, tuttavia, non sarebbe applicabile alla fattispecie all’esame del rimettente, in quanto riguarda ipotesi nelle quali la valutazione pregiudicante è stata espressa in un procedimento distinto da quello pregiudicato, mentre nel caso di specie essa, conseguendo alla restituzione degli atti all’ufficio proponente, è intervenuta nel medesimo procedimento di prevenzione, a nulla rilevando il dato formale dell’iscrizione di un nuovo procedimento.
Tanto premesso, il giudice a quo osserva che il pregiudizio per l’imparzialità-neutralità del giudice può essere determinato anche dalle valutazioni espresse nel provvedimento di restituzione degli atti all’ufficio proponente, disposto ai sensi dell’art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011. Ivi, infatti, si può formulare una valutazione positiva sul merito della proposta (non solo sulla pericolosità del proposto, ma anche sulla sproporzione delle risultanze patrimoniali o reddituali), che «solo per minimali carenze istruttorie, segnalate dal tribunale all’organo proponente» non conduce all’accoglimento della proposta di sequestro. L’apprezzamento di merito compiuto dal tribunale nel restituire gli atti, infatti, può essere così incisivo da risolversi in una sorta di provvedimento di accoglimento condizionato all’integrazione delle lacune probatorie o, comunque, in un’anticipazione del futuro accoglimento, una volta emendate le carenze riscontrate.
In tal senso vengono richiamate la sentenza n. 24 del 2019 di questa Corte, ove si è affermata l’esistenza di un vero e proprio «statuto di garanzia (costituzionale e convenzionale) delle misure di prevenzione, personali (…) e patrimoniali», che, pur non avendo carattere sanzionatorio o repressivo, incidono nei diritti di libertà di movimento, di proprietà e di iniziativa economica, e che, dunque, richiedono un procedimento rispettoso dei canoni generali del "giusto processo” garantito dalla legge (artt. 111, commi primo, secondo e sesto, Cost., e 6 CEDU, nel suo "volet civil”), e la sentenza n. 179 del 2024, ove si è affermato che il principio del giudice terzo e imparziale ha assunto autonoma rilevanza con la legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei princìpi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione).
La mancata previsione di una causa di ricusazione del giudice che abbia disposto la restituzione degli atti lederebbe dunque, in ragione degli apprezzamenti di merito espressi, il diritto fondamentale del proposto a un giudice imparziale – esplicitamente riconosciuto anche dagli artt. 47 CDFUE, 6 CEDU e 14, paragrafo 1, del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP) adottato dall’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966 –, vulnerando al contempo il suo diritto di difesa, in quanto non gli consentirebbe di «attivare i rimedi oppositivi volti a garantire la terzietà del giudice».
Aggiunge il rimettente che non sarebbe pertinente il principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, che non si configura alcuna incompatibilità a decidere il merito in capo all’unico giudice funzionalmente designato per il grado che abbia provveduto in via cautelare nella stessa fase (si richiama la sentenza n. 93 del 2024 di questa Corte), in quanto la giurisprudenza costituzionale distingue, a tal fine, «i provvedimenti cautelari adottati dal giudice nel processo di merito, che hanno valenza meramente endofasica, dai provvedimenti del giudice di restituzione degli atti al pubblico ministero». Questi ultimi, infatti, assumerebbero efficacia pregiudicante, in quanto la trasmissione degli atti al pubblico ministero determina la regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari (vengono richiamate le sentenze di questa Corte n. 16 del 2022, n. 400 del 2008 e n. 455 del 1994).
Ciò posto, sostiene il rimettente, la restituzione degli atti disposta ai sensi dell’art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, nel contesto del medesimo procedimento di prevenzione, definisce la fase di deliberazione del tribunale e determina la riespansione della fase delle indagini, con consegente restituzione all’ufficio proponente dell’integralità delle sue attribuzioni e prerogative (compreso il potere di archiviare il procedimento di prevenzione). Il deposito della nuova proposta di applicazione della misura di prevenzione aprirebbe una nuova fase del medesimo giudizio di primo grado, distinta dalla precedente, nella quale «la valutazione "contenutistica” espressa nel provvedimento di rigetto della prima proposta esplica la propria efficacia pregiudicante».
Il potere di restituzione degli atti all’organo proponente ai sensi del più volte citato art. 20, comma 2, sarebbe soltanto apparentemente analogo al potere accordato dall’art. 421-bis, comma 1, cod. proc. pen. al giudice dell’udienza preliminare di indicare ulteriori indagini al pubblico ministero ove le precedenti fossero incomplete, in quanto, in tal caso, il processo penale rimane pendente nella fase dell’udienza preliminare. Avrebbe, invece, effetti analoghi a quelli determinati dalla previsione delle "indagini coatte”, disposte ai sensi dell’art. 409, comma 4, cod. proc. pen., dal giudice per le indagini preliminari investito della richiesta di archiviazione, che non può trattenere gli atti presso il proprio ufficio, ma deve restituirli al pubblico ministero, il quale, all’esito dei nuovi accertamenti, può decidere se esercitare l’azione penale o richiedere nuovamente l’archiviazione.
Sulla base di tali coordinate ermeneutiche il giudice rimettente sostiene che la restituzione degli atti disposta dal tribunale, chiamato ad applicare il sequestro e la confisca di prevenzione, assume efficacia pregiudicante ai sensi dell’art. 34 cod. proc. pen. In primo luogo, le valutazioni espresse nel provvedimento di restituzione degli atti concernono la medesima res iudicanda oggetto della successiva proposta; in secondo luogo, il giudice che restituisce gli atti non solo conosce, ma valuta anche gli elementi probatori e, dunque, decide nel merito della misura di prevenzione, sostanzialmente esprimendosi sulla fondatezza della relativa proposta; in terzo luogo, il provvedimento di restituzione degli atti, determinando la regressione del procedimento di prevenzione alla fase iniziale, reintegra l’organo proponente nelle sue attribuzioni.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sopradescritta sia dichiarata non fondata.
La questione sarebbe appunto non fondata, in quanto la giurisprudenza costituzionale ha escluso che sia incompatibile a decidere il merito il giudice che abbia provveduto in via cautelare nella stessa fase, dovendo essere preservata l’esigenza di continuità e globalità ed evitata la frammentazione del procedimento (viene richiamata la sentenza di questa Corte n. 93 del 2024).
Tale esigenza sarebbe vanificata dall’accoglimento della questione sollevata dal rimettente, poiché per la medesima fase del giudizio sarebbe necessario disporre di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere e si determinerebbero evidenti effetti distonici, riconoscendosi ipotesi di incompatibilità anche nel caso di richieste di integrazione di meri dati materiali o probatori (come il numero e/o l’esatta indicazione dei beni immobili da sottoporre a sequestro).
L’unitarietà del giudizio di sequestro e confisca, costruito dalla legge come unitaria fase processuale, escluderebbe la violazione dell’imparzialità e terzietà del giudice, poiché con la richiesta probatoria egli non anticiperebbe un giudizio positivo o negativo sul merito della proposta.
Del resto, la stessa disposizione di cui all’art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011 chiarisce che il potere del tribunale di indicare al pubblico ministero ulteriori accertamenti patrimoniali è finalizzato a «valutare la sussistenza dei presupposti di cui al comma 1 per l’applicazione del sequestro o delle misure di cui agli articoli 34 e 34-bis». Tale valutazione, che implicherebbe un’anticipazione del giudizio, non può pertanto precedere la richiesta di ulteriori accertamenti e comunque non può ritenersi tale da inficiare la garanzia dell’imparzialità del giudice.
3.– Si è costituita in giudizio la parte M. F., nei cui confronti sono richieste le misure di prevenzione nel giudizio a quo, concludendo per la fondatezza della questione di legittimità costituzionale.
Nel richiamare lo svolgimento del procedimento di prevenzione a quo e i principali argomenti dell’ordinanza di rimessione, condivisi senza riserva, la parte si sofferma sulla differenza tra i provvedimenti cautelari emessi all’interno di una stessa fase e i provvedimenti restitutori, che determinano una regressione del procedimento e, dunque, un’efficacia pregiudicante, sottolineando le rilevanti valutazioni di merito contenute nel provvedimento di sequestro dei beni, meramente anticipatorio del successivo provvedimento di confisca disposto all’esito del contraddittorio. Pertanto, la penetrante valutazione di merito sottesa al sequestro, analoga a quella che fonda la successiva confisca, renderebbe evidente l’efficacia pregiudicante determinata dal provvedimento di restituzione degli atti al proponente di cui al comma 2 dell’art. 20 del d.lgs. n. 159 del 2011.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, iscritta al n. 243 reg. ord. del 2024, la Corte di cassazione, sesta sezione penale, ha sollevato d’ufficio, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 CEDU e 47 CDFUE, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., in relazione all’art. 36, comma 1, lettera g), del medesimo codice, nella parte in cui non prevede che le parti possano ricusare il giudice che, chiamato a decidere sull’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, abbia disposto nel medesimo procedimento, ai sensi dell’art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, la restituzione degli atti all’autorità proponente.
1.1.– Il rimettente riferisce che il Tribunale di Firenze, decidendo sulla richiesta di confisca (e preliminare sequestro) di beni del proposto depositata nell’ambito di un procedimento di prevenzione, ha disposto, ai sensi del ricordato art. 20, comma 2, la restituzione degli atti al pubblico ministero, ritenendo che le indagini non fossero complete e indicando gli ulteriori accertamenti patrimoniali necessari. Aggiunge che, a seguito del deposito da parte del pubblico ministero della sollecitata integrazione istruttoria, il predetto Tribunale ha: disposto, in via cautelare, il sequestro di prevenzione dei beni nella disponibilità, diretta o indiretta, del proposto; fissato l’udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali; rigettato due dichiarazioni di astensione. Ricorda poi che, successivamente, con il provvedimento oggetto del ricorso per cassazione introduttivo del giudizio a quo, la Corte d’appello di Firenze ha rigettato la dichiarazione di ricusazione dei componenti del collegio del Tribunale presentata dal proposto.
1.2.– Il giudice a quo ritiene che la norma censurata debba essere applicata nel giudizio principale e che l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale consentirebbe di accogliere il ricorso introduttivo. Ciò basterebbe a configurare il necessario requisito della rilevanza della quaestio.
1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene che la norma di cui all’art. 37, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. contrasti con gli artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 CEDU e 47 CDFUE, poiché il pregiudizio per l’imparzialità-neutralità del giudice può essere determinato anche dalle valutazioni che vengono espresse nel provvedimento di restituzione degli atti all’organo proponente, disposto ai sensi dell’art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011. Ivi, infatti, può essere formulata una valutazione sul merito della proposta (sulla sussistenza non solo della pericolosità del proposto, ma anche della sproporzione delle risultanze patrimoniali e reddituali), che non conduce all’accoglimento della richiesta del sequestro «solo per minimali carenze istruttorie, segnalate dal tribunale all’organo proponente». L’apprezzamento di merito svolto dal tribunale nel restituire gli atti, infatti, può essere così incisivo da risolversi, sostanzialmente, in una sorta di provvedimento di accoglimento condizionato all’integrazione delle lacune probatorie o, comunque, in un’anticipazione del futuro accoglimento, una volta emendate le carenze riscontrate.
Considerata la pregnanza degli apprezzamenti di merito espressi, la mancata previsione di una causa di ricusazione del giudice che abbia disposto la restituzione degli atti lederebbe dunque il diritto fondamentale del proposto a un giudice imparziale – esplicitamente riconosciuto anche dagli artt. 47 CDFUE, 6 CEDU e 14, paragrafo 1, PIDCP –, vulnerando al contempo il suo diritto di difesa, in quanto non gli consentirebbe di «attivare i rimedi oppositivi volti a garantire la terzietà del giudice». L’ordinanza di rimessione, peraltro, richiama il menzionato art. 14, paragrafo 1, PIDCP unicamente in questa sede e non lo assume a parametro interposto ai punti 5 e 7.2. del Considerato in diritto ove sono invece espressamente invocati i menzionati artt. 47 CDFUE e 6 CEDU.
Inoltre, non sarebbe pertinente il principio che esclude l’incompatibilità a decidere il merito dell’unico giudice funzionalmente designato per il grado che abbia provveduto in via cautelare nella stessa fase, in quanto nella specie non si tratterebbe di un provvedimento cautelare adottato dal giudice nel processo di merito, con valenza meramente endofasica, bensì di un provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero che assumerebbe efficacia pregiudicante, in quanto «la trasmissione degli atti al pubblico ministero determina la regressione del procedimento nella fase delle indagini preliminari».
Sulla base di tali coordinate interpretative il giudice rimettente sostiene che la restituzione degli atti disposta dal tribunale, chiamato ad applicare il sequestro e la confisca di prevenzione, assume efficacia pregiudicante ai sensi dell’art. 34 cod. proc. pen. In primo luogo – afferma – le valutazioni espresse nel provvedimento di restituzione degli atti concernono la medesima res iudicanda oggetto della successiva proposta. In secondo luogo, il giudice che restituisce gli atti non solo conosce, ma valuta anche gli elementi probatori, sicché decide nel merito della misura di prevenzione, sostanzialmente esprimendosi sulla fondatezza della proposta. In terzo luogo, il provvedimento di restituzione degli atti, determinando la regressione del procedimento di prevenzione alla fase iniziale, reintegra l’organo proponente nelle sue attribuzioni.
2.– La questione di legittimità costituzionale concernente l’asserita violazione dell’art. 47 CDFUE è inammissibile, in quanto il giudice rimettente non indica perché, e in che termini, la fattispecie sarebbe disciplinata dal diritto eurounitario.
L’art. 51, paragrafo 1, CDFUE stabilisce, infatti, che le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione».
Ne discendono due conseguenze, più volte evidenziate da questa Corte.
Da un lato, «la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea può essere invocata, quale parametro interposto in un giudizio di legittimità costituzionale soltanto quando la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata anche dal diritto europeo (ex plurimis, sentenze n. 185, n. 33 e n. 30 del 2021, n. 278 e n. 254 del 2020 e n. 194 del 2018)» (sentenza n. 213 del 2021).
Da un altro, è onere del rimettente illustrare per quali ragioni la disciplina censurata ricada nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea, sicché l’eventuale carenza di motivazione impedisce di invocare i diritti riconosciuti dalla CDFUE «quali parametri interposti nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale (ex multis, sentenze n. 213, n. 185, n. 33 e n. 30 del 2021)» (sentenza n. 28 del 2022, nonché, nello stesso senso, più di recente, sentenze n. 5 del 2023 e n. 34 del 2022); «[i]l che naturalmente non esclude la possibilità che i diritti della Carta possano essere utilizzati come strumenti interpretativi nella lettura delle stesse disposizioni costituzionali corrispondenti (come, ad esempio, nelle sentenze n. 33 del 2021, n. 102 del 2020, n. 272 del 2017 e n. 236 del 2016)» (ancora, sentenza n. 28 del 2022).
3.– Le questioni di legittimità costituzionale concernenti l’asserita violazione degli ulteriori parametri invocati dal rimettente non sono fondate.
3.1.– La giurisprudenza costituzionale è ferma nel rilevare l’importanza della garanzia della terzietà e imparzialità del giudice, presidio non solo della funzionalità della giurisdizione, ma anche del diritto di difesa dei cittadini; al riguardo, è stato sovente ribadito da questa Corte che «la disciplina sull’incompatibilità del giudice trova la sua ratio nella salvaguardia dei valori della terzietà e imparzialità del giudice – presidiati dagli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, in riferimento ai quali le questioni di legittimità costituzionale sono ammissibili –, mirando a escludere che questi possa pronunciarsi condizionato dalla "forza della prevenzione”, cioè dalla tendenza a confermare una decisione o a mantenere un atteggiamento già assunto, derivante da valutazioni che sia stato precedentemente chiamato a svolgere in ordine alla medesima res iudicanda. È necessario "che le funzioni del giudicare siano assegnate a un soggetto ‘terzo’, scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto e anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia su cui pronunciarsi” (sentenza n. 172 del 2023; nello stesso senso, sentenze n. 64, n. 16 e n. 7 del 2022 e precedenti ivi citati)» (da ultimo, sentenza n. 93 del 2024).
Tali princìpi sono stati affermati anche con riferimento al procedimento di prevenzione personale, sia pure con alcune precisazioni legate alle sue peculiarità, rilevando che «[n]ell’ambito del principio del giusto processo di cui questa Corte, in numerose occasioni, ha definito i profili sulla base delle disposizioni costituzionali che attengono alla disciplina della giurisdizione, posto centrale occupa l’imparzialità-neutralità del giudice, in carenza della quale tutte le altre regole e garanzie processuali perderebbero di concreto significato. Tale principio in tutti i suoi aspetti, tra cui per l’appunto l’imparzialità del giudice, indubitabilmente vale anche in relazione al procedimento giurisdizionale di applicazione delle misure di prevenzione personali che incidono su diritti di libertà costituzionalmente garantiti per mezzo di una "riserva di giurisdizione”. In questi casi, la garanzia rappresentata da tale riserva non può essere menomata attraverso l’affievolimento dei caratteri che la giurisdizione qualificano come tale […] l’esigenza di preservare il giudice chiamato a pronunciarsi sulla proposta di applicazione delle misure di prevenzione da ogni pre-giudizio che possa comprometterne l’imparzialità si pone nella stessa misura in cui essa è stata affermata in relazione al giudice che è chiamato a pronunciarsi nel processo penale» (sentenza n. 306 del 1997).
L’istituto che direttamente assicura la terzietà e l’imparzialità del giudice nel corso del giudizio è l’incompatibilità (artt. 34 e 35 cod. proc. pen.), cui si riconnettono il dovere di astensione del giudice medesimo (art. 36 cod. proc. pen.) e il diritto delle parti di chiederne la ricusazione (art. 37 cod. proc. pen.). A tal proposito, giova rilevare che la giurisprudenza costituzionale, numerosissime volte pronunciatasi sulla disciplina dell’incompatibilità di cui all’art. 34 cod. proc. pen., ha fornito, in particolare con le sentenze n. 306, n. 307 e n. 308 del 1997, depositate lo stesso giorno (dunque non a caso oggetto di congiunta considerazione in dottrina), un quadro interpretativo dei rapporti tra gli istituti dell’incompatibilità, da un lato, e dell’astensione e ricusazione, dall’altro, tutti posti a salvaguardia dell’imparzialità del giudice. In linea di principio, e per quanto qui rileva, l’incompatibilità endoprocessuale (cosiddetta orizzontale), di cui all’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., presuppone l’identità del procedimento e opera in astratto; le cause di astensione e ricusazione operano invece in concreto e riguardano situazioni al di fuori del giudizio in cui si è chiamati a decidere, siano esse attività non giudiziarie o attività giudiziarie svolte in altro giudizio (sentenza n. 306 del 1997, punto 2.2. del Considerato in diritto).
3.2.– Il rigore del regime delle incompatibilità non può tuttavia determinare un malfunzionamento della giurisdizione, sicché le relative norme vanno applicate solo quando sussista una reale ed effettiva esigenza di prevenzione della deviazione dell’amministrazione della giustizia dal tracciato della terzietà e dell’imparzialità. È per questo che l’incompatibilità (in una con i connessi istituti della doverosa astensione e della ricusazione) non trova applicazione quando le precedenti valutazioni astrattamente "pregiudicanti” si collochino nella medesima fase del procedimento (ex plurimis, sentenze n. 209, n. 179 e n. 93 del 2024, n. 172 e n. 91 del 2023, n. 64 del 2022).
L’istituto dell’incompatibilità ha la funzione di evitare il rischio che sul convincimento del giudice gravi un pre-giudizio, che invero può verificarsi anche nell’ipotesi – rilevante nella fattispecie che qui interessa – dell’adozione di atti che l’ordinamento considera, appunto, pre-giudicanti, nel senso che il solo fatto dell’adozione stessa è valutato quale indice qualificato del difetto di un effettivo libero convincimento quanto all’adozione di atti successivi. Nondimeno, è evidente che in qualunque processo decisionale, in quanto attività intellettuale dinamica, e non statica, il titolare dell’organo competente matura in itinere il proprio convincimento, che può dunque ben dirsi "a formazione progressiva”. Se di questo dato di comune esperienza non si tenesse conto, si potrebbe giungere ad applicare gli istituti dell’incompatibilità, dell’astensione e della ricusazione pel solo fatto che il convincimento del giudice si forma progressivamente, il che comporterebbe l’assoluta impossibilità di funzionamento della giurisdizione. È per questo che – come già ricordato – la giurisprudenza di questa Corte è ferma nell’escludere che l’incompatibilità valga quando il giudice ha adottato più atti all’interno della medesima fase processuale, esattamente perché questa costituisce una frazione dell’iter decisorio nella quale il fenomeno della formazione progressiva del convincimento del giudicante si compie con peculiare concentrazione (della giurisprudenza costituzionale che sottolinea l’esigenza di continuità e globalità del procedimento, che ne eviti un’eccessiva frammentazione, si dirà amplius al punto 6.1.).
Nel nostro ordinamento, pertanto, il diritto processuale deve assicurare il massimo rispetto dei princìpi di terzietà e imparzialità del giudice, ma è tenuto a farlo in osservanza sia delle esigenze di funzionalità della giurisdizione sia della logica stessa di tali princìpi, applicati entro itinera processuali nei quali il convincimento del giudice, di necessità, si forma progressivamente. È per questo che la terzietà e l’imparzialità sono compromesse quando è chiamato a novellamente pronunciarsi un giudice che abbia già manifestato in altra occasione un già sufficientemente strutturato convincimento sul merito dei medesimi fatti. Ed è il verificarsi di una simile evenienza che la Costituzione intende impedire.
4.– Proprio in ossequio a tali esigenze, logiche e sistematiche, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito come «un’incompatibilità costituzionalmente necessaria, in forza dei princìpi menzionati, sussiste a) allorché il medesimo giudice abbia già svolto, in relazione alla medesima res iudicanda, un’"attività pregiudicante”, e b) sia nuovamente chiamato a svolgere un compito decisorio in una "sede pregiudicata” dalla propria precedente attività. […] Quanto anzitutto all’"attività pregiudicante”, secondo la citata giurisprudenza di questa Corte, essa sussiste in presenza di quattro condizioni essenziali». In particolare, «le valutazioni devono cadere sulla medesima res iudicanda. In secondo luogo, il giudice deve essere stato chiamato a effettuare una valutazione di atti anteriormente compiuti, in maniera strumentale all’assunzione di una decisione (e non semplicemente aver avuto conoscenza di essi). In terzo luogo, tale valutazione deve attenere al merito dell’ipotesi accusatoria (e non già al mero svolgimento del processo). Infine, le precedenti valutazioni devono collocarsi in una diversa fase del procedimento» (sentenza n. 209 del 2024).
4.1.– Quanto alla ricusazione, che viene qui in specifico rilievo, quale istituto precipuamente considerato dall’ordinanza di rimessione, va rammentato che questa Corte, con la sentenza n. 283 del 2000, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, cod. proc. pen. nella parte in cui non riconosce alle parti la facoltà di ricusare il giudice che in un diverso procedimento, anche non penale, abbia espresso una valutazione di merito sul medesimo fatto e nei confronti del medesimo soggetto. La pronuncia assume particolare rilievo ai fini del presente giudizio, in quanto riguarda proprio il rapporto pregiudicante tra processo penale e procedimento di prevenzione e così ha statuito: «questa Corte ha già avuto occasione di affermare che il pregiudizio per l’imparzialità-neutralità del giudicante può verificarsi anche nei rapporti tra il procedimento penale e quello di prevenzione, sia quando la valutazione pregiudicante sia stata espressa nel primo in sede di accertamento dei gravi indizi di colpevolezza, quale condizione di applicabilità delle misure cautelari (sentenza n. 306 del 1997), sia quando il rapporto di successione temporale tra attività pregiudicante e funzione pregiudicata sia invertito, per avere il giudice, chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità penale di un imputato del delitto di associazione di stampo mafioso, già espresso nell’ambito del procedimento di prevenzione una valutazione sull’esistenza dell’associazione e sull’appartenenza ad essa della persona imputata nel successivo processo penale (ordinanza n. 178 del 1999)».
Al riguardo, il contrasto interpretativo registratosi nella giurisprudenza di legittimità in merito all’applicabilità delle cause di incompatibilità e di ricusazione nel procedimento di prevenzione è stato risolto dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione con la sentenza n. 25951 del 2022, ove si è affermato il principio che è applicabile al procedimento di prevenzione il motivo di ricusazione previsto dall’art. 37, comma 1, cod. proc. pen. – come risultante a seguito dell’intervento additivo effettuato da questa Corte con la citata sentenza n. 283 del 2000 – nel caso in cui il giudice abbia, appunto, espresso valutazioni di merito sul medesimo fatto nei confronti del medesimo soggetto in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale.
5.– Tanto premesso, l’ordinanza di rimessione prende le mosse proprio dal riconoscimento da parte della giurisprudenza di legittimità della ricusabilità del giudice della prevenzione che abbia espresso valutazioni di merito sulla medesima regiudicanda in altro procedimento di prevenzione, per poi dubitare della mancata previsione della ricusazione anche nel caso in cui la valutazione di merito sia stata formulata nel medesimo procedimento di prevenzione, ai sensi dell’art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011.
In particolare, il potere di restituzione degli atti all’organo proponente previsto da tale norma è stato introdotto nel codice antimafia dall’art. 5, comma 4, della legge 17 ottobre 2017, n. 161 (Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, al codice penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e altre disposizioni. Delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate), ed è stato conferito al tribunale, che, investito della decisione sulla misura patrimoniale, ne fa uso ove ritenga che «le indagini non siano complete» e indica «gli ulteriori accertamenti patrimoniali indispensabili per valutare la sussistenza dei presupposti» per l’adozione del sequestro o delle misure non ablatorie alternative (amministrazione giudiziaria e controllo giudiziario) applicabili.
La previsione, del tutto innovativa (anche rispetto alla prassi), non ha eliminato, tuttavia, i poteri d’indagine riconosciuti allo stesso tribunale dall’art. 19, comma 5, del medesimo d.lgs. n. 159 del 2011 («Nel corso del procedimento per l’applicazione di una delle misure di prevenzione iniziato nei confronti delle persone indicate nell’articolo 16, il tribunale, ove necessario, può procedere ad ulteriori indagini oltre quelle già compiute a norma dei commi che precedono»), con la cui disciplina la previsione ora riportata va dunque coordinata.
Invero, come si è opportunamente osservato in dottrina, i poteri istruttori integrativi del tribunale dovrebbero essere riservati all’ipotesi della ricorrenza di incompletezze marginali, suscettibili di essere colmate dallo stesso organo giudicante. In tale quadro, la restituzione degli atti all’autorità proponente – che non è soltanto il pubblico ministero, ma anche il questore o il direttore della Direzione investigativa antimafia – sarebbe destinata a essere disposta soltanto in caso di grave incompletezza delle indagini, suscettibile di essere colmata soltanto dall’autorità proponente, dotata degli idonei strumenti di investigazione e di indagine. Dovrebbe trattarsi, in altri termini, di omissioni che abbiano un significativo rilievo e non concernano semplici attività integrative dell’apparato istruttorio, che lo stesso tribunale potrebbe compiere.
Ancora, come osservato in dottrina, la disposizione di cui al citato art. 20, comma 2, situa tale potere del tribunale non solo prima dell’adozione della misura del sequestro ovvero delle misure non ablatorie, ma anche prima della fissazione dell’udienza. E la collocazione del potere in tale scansione procedimentale sembrerebbe presupporre l’ipotesi in cui il tribunale debba determinarsi, proprio in ragione dell’accertata gravità dell’incompletezza istruttoria, nel senso del rigetto della misura proposta.
Tale potere di restituzione sembra dunque riconosciuto al tribunale proprio per le ipotesi di grave incompletezza probatoria, che dovrebbero fondare un rigetto delle misure cautelari (sequestro o misure non ablative), e, come ben còlto dal giudice a quo, esso risulta funzionale a «evitare che il proposto, reso edotto dell’iniziativa cautelare, possa porre in essere atti di dispersione o di occultamento dei propri beni» (punto 3 del Considerato in diritto). Trattasi di una ratio che, al contrario, non ricorre nell’ipotesi di incompletezze marginali, laddove il tribunale, dopo aver disposto il sequestro cautelare (o altra misura, non ablativa), attivi d’ufficio i poteri integrativi di indagine riconosciuti dall’art. 19, comma 5, del d.lgs. n. 159 del 2011.
6.– Il quadro normativo e interpretativo finora illustrato è tale da orientare nel senso che sia da escludere una compromissione dell’imparzialità del giudice della prevenzione il quale abbia disposto la restituzione degli atti all’autorità proponente. Tanto vale sia pel profilo della sussistenza di una causa di incompatibilità sia pel profilo della sussistenza di una causa di ricusazione, ancorché si debba precisare che nel caso all’esame di questa Corte la questione è stata sollevata con riferimento all’art. 37 cod. proc. pen., benché la situazione individuata come pregiudicante sussistesse nel medesimo procedimento di prevenzione.
L’identità del procedimento, per quanto già rilevato supra (punto 3.1.), necessariamente orienta il sindacato di legittimità costituzionale, in via prioritaria e assorbente, nei confronti della disciplina dell’incompatibilità.
La problematica agitata dal rimettente si incentra sull’istituto dell’incompatibilità.
6.1.– Quanto al profilo, prioritario e assorbente, della eventuale rilevanza di un’ipotesi di incompatibilità, va preliminarmente osservato che il modello normativo del procedimento di prevenzione è quello del procedimento camerale partecipato, previsto, in via generale, dall’art. 666 cod. proc. pen. (inserito nel Libro X, che disciplina la fase dell’esecuzione). In tal senso depone l’art. 7, comma 9, del d.lgs. n. 159 del 2011, ove testualmente si dispone che: «[p]er quanto non espressamente previsto dal presente decreto, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni contenute nell’articolo 666 del codice di procedura penale».
A tale considerazione di carattere generale va aggiunto che il procedimento di prevenzione non è scandito da distinte fasi "processuali”, come accade invece nel procedimento penale (indagini preliminari, udienza preliminare, giudizio dibattimentale, riti alternativi, eccetera), e che esso diventa vero e proprio giudizio di prevenzione nel momento in cui si attua il contraddittorio, dopo l’adozione della misura cautelare del sequestro (o di altra misura, non ablatoria) e la fissazione della trattazione in camera di consiglio per la decisione sulla confisca.
Pur dovendosi auspicare un intervento del legislatore idoneo a strutturare con più accurata precisione il procedimento di prevenzione, soprattutto nella dimensione cautelare, che tanto rilievo ha assunto nella prassi, va rilevato ch’esso ha una fisionomia evidentemente monofasica, non venendo in rilievo le scansioni tendenzialmente impermeabili che, anche in quanto è ispirato al modello accusatorio, connotano il processo penale di cognizione. Ne consegue che anche la restituzione degli atti all’autorità proponente non determina una regressione di fase, ma identifica una mera sottofase all’interno di un procedimento che resta unitario.
Al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte, in coerenza con le già segnalate esigenze di funzionalità della giurisdizione, ha sovente ribadito che «[a]ll’interno di ciascuna delle fasi – intese come sequenze ordinate di atti che possono implicare apprezzamenti incidentali, anche di merito, su quanto in esse risulti, prodromici alla decisione conclusiva – va, in ogni caso, preservata l’esigenza di continuità e di globalità, venendosi altrimenti a determinare una frammentazione del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere (sentenza n. 64 del 2022 e precedenti ivi citati)» (sentenza n. 93 del 2024; ex plurimis, anche sentenze n. 7 del 2022, n. 66 del 2019, n. 18 del 2017, n. 153 del 2012, n. 177 e n. 131 del 1996; ordinanze n. 76 del 2007, n. 123 e n. 90 del 2004, n. 370 del 2000 e n. 232 del 1999).
6.1.1.– La situazione procedimentale che si determina con la restituzione degli atti all’autorità proponente appare maggiormente assimilabile all’ipotesi in cui, nel corso della fase dibattimentale, una misura cautelare sia richiesta al giudice che procede e sia rigettata per ritenuta carenza dei gravi indizi di colpevolezza. Pur proseguendo il processo per l’accertamento nel merito della responsabilità dell’imputato, il giudice, nei limiti della competenza accessoria sulla decisione delle misure cautelari (art. 279 cod. proc. pen.), rigetta la richiesta di misura e restituisce gli atti del procedimento cautelare incidentale senza svolgere alcuna "attività pregiudicante” che rilevi ai fini della compromissione dell’imparzialità. Senza, dunque, diventare incompatibile.
Non appare altrettanto assimilabile l’ipotesi, richiamata dall’ordinanza di rimessione (punto 8.2), del provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari investito della richiesta di archiviazione dispone «ulteriori indagini» ai sensi dell’art. 409, comma 4, cod. proc. pen.: tale richiesta di integrazione istruttoria si colloca, infatti, nell’ambito del controllo sull’inazione del pubblico ministero in una fase di spiccata fluidità dell’ipotesi accusatoria, mentre nel caso all’esame di questa Corte il controllo "probatorio” ha per oggetto l’esercizio dell’azione di prevenzione.
Maggiormente affine a quella in esame appare, invece, l’ipotesi disciplinata dall’art. 421-bis, comma 1, cod. proc. pen., che conferisce al giudice dell’udienza preliminare il potere di indicare ulteriori indagini al pubblico ministero quando ritenga incomplete quelle già effettuate: benché l’ordinanza di rimessione consideri solo apparente l’analogia, in quanto il processo penale resta pur sempre pendente nella fase dell’udienza preliminare, si può osservare che la restituzione degli atti è qui impedita dal principio di irretrattabilità dell’azione penale, sicché il giudice dell’udienza preliminare avrebbe, quale unica alternativa all’indicazione di «ulteriori indagini», la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere. Proprio come nel caso del giudice della prevenzione, il quale, in assenza della norma che ora consente di disporre la restituzione degli atti per le ulteriori indagini, dovrebbe rigettare la richiesta di sequestro e, successivamente, di confisca. L’analogia si coglie proprio in ciò che in entrambi i casi il giudice "valuta” la sufficienza della piattaforma probatoria dopo l’inizio dell’azione penale (nel caso dell’udienza preliminare) o di prevenzione (nel caso della decisione di restituzione degli atti da parte del tribunale), ferma restando la non replicabilità, nel procedimento di prevenzione, delle scansioni di fase che connotano esclusivamente la struttura del processo penale.
6.2.– Oltre alla dimensione monofasica del procedimento di prevenzione rileva ai fini del presente giudizio anche il fatto che, sulla premessa che i princìpi del giusto processo applicabili nel procedimento di prevenzione sono quelli affermati dai primi due commi dell’art. 111 Cost., la giurisprudenza costituzionale ha modulato il riconoscimento delle garanzie anche in relazione alla diversità del modello procedimentale rispetto al prototipo del giudizio penale. Si è osservato, per esempio, che «[i]l rispetto del principio del contraddittorio [...] "non impone che esso si esplichi con le medesime modalità in ogni tipo di procedimento e neppure sempre e necessariamente nella fase iniziale dello stesso, onde non sono in contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost. i modelli processuali a contraddittorio eventuale e differito» (così, testualmente, la sentenza n. 172 del 2023; tra le molte, sentenza n. 115 del 2001 e ordinanze n. 255 del 2009, n. 291 del 2005, n. 352, n. 172 e n. 8 del 2003; più recentemente, sentenza n. 91 del 2023; analogamente, con riferimento al diritto di difesa, sentenza n. 106 del 2015).
6.2.1.– Del resto, anche la giurisprudenza costituzionale che si è pronunciata sulle misure di prevenzione ha costantemente evidenziato le peculiarità del procedimento di prevenzione rispetto al processo penale di cognizione.
Con la sentenza n. 106 del 2015, in particolare, si è rilevato che «Il procedimento di prevenzione e il procedimento penale, nella cui cornice viene applicata la confisca dell’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, sono dotati di proprie peculiarità, sia per l’aspetto processuale, sia per quello dei presupposti sostanziali […]. Al riguardo, questa Corte, nell’ordinanza n. 275 del 1996, ha già avuto occasione di sottolineare "le profonde differenze, di procedimento e di sostanza, tra le due sedi, penale e di prevenzione: la prima ricollegata a un determinato fatto-reato oggetto di verifica nel processo, a seguito dell’esercizio dell’azione penale; la seconda riferita a una complessiva notazione di pericolosità, espressa mediante condotte che non necessariamente costituiscono reato” […]. Il sistema delle misure di prevenzione ha dunque una sua autonomia e una sua coerenza interna, mirando ad accertare una fattispecie di pericolosità, che ha rilievo sia per le misure di prevenzione personali, sia per la confisca di prevenzione».
Anche la sentenza n. 24 del 2019, nel delineare uno statuto di garanzie, sostanziali e processuali, delle misure di prevenzione, ha sottolineato «la necessità che la sua applicazione sia disposta in esito a un procedimento che – pur non dovendo necessariamente conformarsi ai princìpi che la Costituzione e il diritto convenzionale dettano specificamente per il processo penale – deve tuttavia rispettare i canoni generali di ogni "giusto” processo garantito dalla legge (artt. 111, primo, secondo e sesto comma, Cost., e 6 CEDU, nel suo "volet civil”), assicurando in particolare la piena tutela al diritto di difesa (art. 24 Cost.) di colui nei cui confronti la misura sia richiesta».
7.– Tanto precisato, è tuttavia indispensabile segnalare che gli indicati profili di peculiarità del procedimento di prevenzione non sono, comunque, idonei a fondare un ridimensionamento del principio dell’imparzialità, considerando che l’art. 111, secondo comma, Cost. delinea i caratteri di qualsiasi «giusto processo», e quindi anche di quello di prevenzione. In altri termini: l’esigenza di imparzialità del giudice della prevenzione è assistita dai princìpi costituzionali, che impongono l’assenza di attività pregiudicanti pur a fronte della peculiarità di tale procedimento.
Sono dunque l’identità di fase nella quale viene disposta la restituzione degli atti all’autorità proponente e la non qualificabilità della relativa decisione come "attività pregiudicante” che risultano decisive al fine dello scioglimento – per la negativa – del dubbio di illegittimità costituzionale prospettato dal rimettente.
7.1.– Come si è già osservato (supra, punto 5), l’art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011 non ha eliminato i poteri d’indagine riconosciuti al tribunale dal precedente art. 19, comma 5, con la cui disciplina va dunque coordinato. I poteri istruttori integrativi del tribunale dovrebbero dunque essere riservati alle ipotesi di incompletezze marginali suscettibili di essere colmate dallo stesso organo giudicante, mentre la restituzione degli atti all’autorità proponente dovrebbe essere disposta soltanto in caso di grave incompletezza delle indagini, suscettibile di essere colmata soltanto dall’autorità proponente (dotata degli idonei strumenti di investigazione e di indagine).
Per tali ragioni, del resto, non solo prima della fissazione dell’udienza, ma anche prima dell’adozione della misura del sequestro ovvero di quelle non ablatorie, il potere di restituzione in capo al tribunale è collocato in una scansione procedimentale la cui struttura suggerisce non già l’ipotesi dell’accoglimento della richiesta di misura, bensì quella del suo rigetto.
Non appare dunque ipotizzabile una situazione pregiudicante nella valutazione posta a fondamento del provvedimento di restituzione degli atti, provvedimento che, implicando in realtà un rigetto allo stato per insussistenza dei presupposti della misura cautelare, non assume valenza pregiudicante rispetto alla successiva adozione del sequestro (o di altra misura, non ablatoria).
Del resto, lo stesso citato art. 20, comma 2, stabilendo che gli «ulteriori accertamenti patrimoniali» possono disporsi quando sono «indispensabili per valutare la sussistenza dei presupposti» del sequestro o delle altre misure, non ablatorie, appare escludere una valutazione della sussistenza dei presupposti in difetto delle ulteriori indagini. Di conseguenza, anziché valutare la sussistenza dei presupposti, il tribunale che restituisca gli atti valuta la sola sufficienza degli atti. E questo non integra una "attività pregiudicante”.
7.2.– Va aggiunto, quale ulteriore considerazione di carattere sistematico, che il giudizio sulla cautela reale non è mai stato ritenuto "pregiudicante” nel processo ordinario, avendo la giurisprudenza di legittimità costantemente affermato che l’identità (fisica) tra il giudice della cautela e quello della valutazione del merito, nell’ambito dell’unica funzione attribuita nel grado, non fa nascere alcuna situazione di incompatibilità derivante dagli atti compiuti nel procedimento (in tal senso, da ultimo, Cass., sez. un., n. 25951 del 2022).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, in relazione all’art. 36, comma 1, lettera g), del medesimo codice, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dalla Corte di cassazione, sesta sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, in relazione all’art. 36, comma 1, lettera g), del medesimo codice, sollevate, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dalla Corte di cassazione, sesta sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 settembre 2025.
F.to:
Giovanni AMOROSO, Presidente
Massimo LUCIANI, Redattore
Igor DI BERNARDINI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 dicembre 2025
La versione anonimizzata è conforme, nel testo, all'originale
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